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Intervista, WebMarketing

Alta rotazione del personale, un mercato sempre più esigente e in continuo cambiamento. Una strada per la sopravvivenza però è possibile.

Nel 2019 Deloitte ha rilevato una scioccante verità: i CMO delle più grandi aziende americane rimangono al loro posto, prima di venire rimpiazzati, per soli 41 mesi. A malapena quattro anni insomma per trasferirsi altrove. Gli altri C-level sembrano invece restare addirittura 73 mesi. Ma cosa sta causando questa rotazione continua? Abbiamo cercato di fare una nostra analisi, commentando anche i dati emersi dallo studio.

È trascorso ormai un anno da quando il Covid-19 ha fatto capolino in Europa rompendo gli schemi e soprattutto velocizzando una serie di cambiamenti già in atto da tempo. Le abitudini dei consumatori, tanto per citarne una, hanno seguito un trend già noto, rivolgendo la domanda per i beni di prima necessità (e non) a esercenti commerciali online. Il risultato? Chi era pronto ha sposato la sfida dell’e-commerce, ma tutti gli altri hanno sofferto o dichiarato il fallimento. A questo, si sono aggiunte delle vere e proprie contrazioni per certi business che hanno dovuto rivedere la propria offerta. Insomma: è stato un anno duro il 2020 e il 2021 comincia in salita.

Se però tutti questi cambiamenti sono sfidanti per tutti i dipartimenti aziendali, il marketing è uno di quelli che li affronta in prima linea.

Proprio come spiega Deloitte, i CMO nel tempo hanno assunto un ruolo controverso: sono diventati avveniristici condottieri che devono essere in grado di guardare ai problemi a lungo termine, pur non dimenticando quelle che sono le richieste dei consumatori a breve termine. Pertanto, se è ai marketer che le aziende richiedono di preoccuparsi della crescita continua del business, è sempre su queste stesse persone che viene mossa pressione quando l’azienda deve gestire una crisi.

Impossibile non citare un caso italiano, quello del pastificio campobassano. La Molisana, per esempio, nei mesi precedenti è finita sui giornali per il naming di alcune storiche referenze e per la scelta di alcune parole usate sui pack di questi stessi prodotti, una narrazione che ha scatenato l’ira del web, causando all’azienda un danno di immagine.

Per farla breve, basta poco. A un qualsiasi responsabile marketing può capitare di essere oggi sulla cresta dell’onda per poi finire l’indomani a leggere annunci di lavoro.

Non ci resta quindi che chiederci, quale futuro per questo ruolo aziendale? Come possono i responsabili marketing farsi promotori del cambiamento e favorire realmente la crescita continua dell’impresa per la quale lavorano?

Anche in questo caso, l’analisi di Deloitte ha fatto scuola. L’azienda di consulenza ha infatti individuato cinque tipologie di CMO che potrebbero, alla luce della situazione attuale, guidare le aziende verso un futuro più roseo.

Cinque archetipi di responsabili marketing che possono salvare un business

1. Il Growth Driver. Crescere, crescere, crescere

Mirare alla crescita. È questo uno degli obiettivi più ambiti, e abusati, nel mondo della gestione aziendale. Come dicevamo prima, è il responsabile marketing la persone che più di tutte si preoccupa di inseguire questo sogno. Ciò che stupisce però, è che degli intervistati di Deloitte, solo il 6% ha affermato di lavorare quotidianamente per concretizzare questi obiettivi. Spaventa di più però un altro dato; pare che il 95% degli intervistati misuri la crescita usando come KPI le entrate, una visione un po’ orbe che, in agenzia contestiamo quotidianamente. Un’azienda in crescita è un business che può mirare anche a posizionare il proprio marchio in altri mercati, operazione che non restituisce un ROI immediato, ma che comunque è il primo passo verso introiti provenienti da nicchie inesplorate.

crescita

 

2. Il Customer champion. I clienti prima di tutto

È la domanda che fa l’offerta. Recita così un vecchio adagio che non possiamo sicuramente mettere in discussione. In apertura si parlava proprio di questo shift dagli acquisti negli store-fisici ai negozi online, uno spostamento della domanda che ha causato due risposte: gli esercenti hanno sposato la sfida dell’e-commerce (soprattutto dopo il boom di acquisti riscosso da Cortilia) e, in Italia, il Governo ha risposto mettendo il turbo alle politiche cashless che, grazie al cashback, guidano i consumatori verso una scelta locale ed evitando l’evasione. In poche parole? Sì, sono i clienti a spiegarci cosa non va e il responsabile marketing non può non tenere conto di queste esigenze; insight che possono essere utili per migliorare il prodotto o servizio reso e darci una mano a ottimizzare l’esperienza di acquisto. Tuttavia, pare che sia solo il 55% dei marketer riscontri una mancata comprensione dei bisogni dei clienti, a livello aziendale. Si tratta, di fatto, di un fenomeno che possiamo rilevare giorno dopo giorno nella nostra attività, a stretto contatto con sales e marketing manager. Il cliente va messo al centro di ogni processo decisionale, proprio come precettato da HubSpot con il modello flywheel.

3. Capability builder. Tecnologia, oh tecnologia!

Pare che, secondo uno studio, tra il 2017 e il 2018 tre quarti della spesa connessa ad acquisti tecnologici riguardi i dipartimenti marketing delle aziende. Ma qual è l’uso che viene fatto di tutta questa innovazione al servizio del marketing? Limitato! Sembrerebbe che, tra i marketer che hanno risposto al sondaggio, solo il 34% starebbe utilizzando la tecnologia al servizio delle proprie campagne, per controllarne l’andamento. Addirittura solo 10% investirebbe cifre per migliorare l’esperienza della clientela. Un uso limitato e limitante che rischia di mettere a rischio tutto il lavoro strategico del team di marketing. Oggi è grazie a sistemi integrati come HubSpot che è possibile avere un follow-up in real-time delle campagne, restare in contatto con i propri clienti e assicurar loro un’offerta su misura e assicurarsi fedeltà.

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4. Innovation catalyst. Dobbiamo innovare

Spesso, il marketing manager che decide di innovare, è quello più controverso. Non è un mistero che negli ultimi anni si sia fatto un gran parlare di big data e del potenziale che questi avessero per lo sviluppo delle aziende. Si è andata così diffondendosi una leggenda, una chimera da inseguire, sull’analisi dei numeri che però, stando a quanto riporta Deloitte, non ha poi fornito grandi risultati. Probabilmente per una lettura poco approfondita di questi numeri, pare che solo il 18% dei marketer cread che una conoscenza capillare dei dati sul proprio portfolio prodotti potrebbe aiutare un business a capire quale strada da imboccare. A tal proposito c’è da fare una discriminante. In base alla nostra esperienza con le più disparate aziende, è facile rilevare che spesso gli innovatori siano anche quelli ossessionati dalla ricerca di tool e che facciano una ricerca certosina di cifre e percentuali, senza però considerare che un dato per essere letto deve essere contestualizzato. È cruciale, in questa pluralità di fonti, evitare di perdere la rotta. Ciò che invece va sempre tenuto a mente è darsi degli obiettivi e quindi individuare le KPI. Anche in un’analisi dei dati: quale comportamento miri a tracciare? Come puoi farlo?

Chief storyteller. C’era una volta…

Secondo Deloitte, il 40% dei marketer sta operando attivamente affinché ci sia un brand-shapinhg, un aggiustamento del marchio, magari grazie al coinvolgimento del pubblico, sempre più partecipe alla narrazione. Che lo storytelling sia la chiave di una narrazione di brand più inclusiva ed empatica è noto a tutti, tuttavia è bene inserire queste campagne in un universo che sia in grado di guidare l’utente anche verso una conversione. Pare che solo il 6% di questi CMO infatti sia concentrato sui ritorni di investimento, scelta questa che non è necessariamente negativa, in certe fasi della vita aziendale.

Dunque non resta che chiedersi quale sia la ricetta giusta? Quali doti deve avere un buon responsabile marketing per poter cavalcare la sfida attuale e saper rispondere senza dover cambiare azienda dopo appena quattro anni?

Potrà sembrare scontato, ma di tutto un po’ è la risposta. In base alla nostra esperienza, possiamo affermare che un buon CMO è sicuramente qualcuno in grado di avere una visione di insieme precisa e definita, che tiene bene a mente i punti di forza e di debolezza del proprio marchio. È cruciale conoscere il mercato e, perché no, anche la tecnologia di cui può fare uso, ma soprattutto deve sapersi fidare e lasciarsi aiutare. Il tuo team o i tuoi consulenti esterni possono darti davvero un punto di vista in più, possono essere la chiave di volta per la risoluzione di un annoso problema.

È un dato di fatto che spesso il CMO tenda a delegare poco anche aspetti decisionali sui quali possiede meno know-how. È forse questa la strada: imparare a fidarsi e diventare un vero e proprio leader del marketing, in azienda, in grado di guidare il team (interno ed esterno) verso gli obiettivi di business.

 

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